Vi sono parole che, più di altre, si caricano di ambiguità e contraddizioni di un’epoca, fungendo da attrattori e dissimulatori, meccanismi scatenanti e dispositivi di camuffamento ideologico.
Tra queste, una parola, apparentemente innocua, di cui si fa da qualche decennio largo uso, sia negli ambienti accademici, sia nei siti web e nei social network: “comunitarismo”.
Nelle università, essa viene utilizzata, prevalentemente per indicare una corrente neoconservatrice del pensiero americano, sorta all’inizio degli anni Ottanta, orientata ad una critica del liberalismo di stampo anti-universalista, tradizionalista e regionalista.
In ambito europeo, e sul terreno strettamente politico, però, il termine ha radici più remote essendo divenuto, dalla seconda metà del Novecento, vessillo, non di formazioni politiche genericamente conservatrici, ma di gruppi fondati da esponenti dell’estrema destra armata europea, coinvolti nelle più efferate stragi compiute tra gli anni Sessanta e Ottanta.
Nata da una rielaborazione delle mitologie nazional-popolari del primo fascismo e del primo nazismo, quest’area, che alcuni definiscono “rosso-bruna”, ha poi conosciuto, nello scenario seguito al crollo dell’URSS, molteplici riassestamenti identitari.
Essa si distingue dal comunitarismo americano, innanzitutto, perché, invece di rifarsi al regionalismo e al modello delle piccole patrie, propone un’estensione del concetto autoritario di comunità, dalla dimensione locale, o nazionale, a quella sovranazionale, prospettando l’obiettivo di un impero europeo o euroasiatico.
Altra sua caratteristica è quella di cercare convergenze con l’islamismo radicale e con alcuni settori del movimento “anticapitalista e antimperialista” provenienti dall’estrema sinistra di ispirazione marxista o post-marxista.
Maître à penser di questo comunitarismo europeo fu il belga J. Thiriart (1922-1992). Ex volontario nelle Waffen-SS, Thiriart si impegnò, a partire dal dopoguerra, in sostegno delle politiche neo-colonialiste, fondando il Comité d’Action et Défense des Belges d’ Afrique, il Mouvement d’action civique e, nel 1962, l’organizzazione internazionale Jeaune Europe, sostenuta finanziariamente da monopoli agricoli e minerari francesi e olandesi, da speculatori tedeschi e portoghesi, e soprattutto dall’Unione Miniére du Haut Katanga, multinazionale che si oppose alla decolonizzazione del Congo belga favorendo l’uccisione di Lumumba, primo capo di governo eletto dopo l’indipendenza (1960).
Jeaune Europe rappresentò, secondo la ricostruzione di Cernigoi, la prima “internazionale nera” del dopoguerra, e da essa prese origine il movimento politico poi denominato “comunitarismo”.
Esso guidò il “putsch d’Algeri” (1961) e l’attentato a De Gaulle (1962) ma, soprattutto, fu responsabile di un impressionante sterminio di persone di provenienza africana: “Secondo alcune stime, tra il maggio 1961 e il settembre 1962, furono almeno 2.700 le persone uccise dall’OAS, di cui circa 2.400 algerini”.
Thiriart anticipò l’uso di parole-slogan, divenute poi di gran moda, come “mondialismo” e “comunitarismo” e, nel 1965, entrò nell’agone elettorale fondando il Parti Communautaire Européen. Concependo il “comunitarismo” come “superamento in avanti del nazismo e del comunismo”, in direzione di un “socialismo nazional-europeo”, pensò inizialmente ad un’Europa imperiale contrapposta al blocco atlantico e a quello sovietico. Successivamente, lanciò, invece, il progetto di un’“Eurasia” imperiale, estesa dall’Atlantico agli Urali, alleata con le grandi potenze orientali e i paesi islamici in funzione antistatunitense e antiebraica. Progetto che tornò alla ribalta, nel 1984, dopo l’incontro con L. Michel che condusse alla fondazione del Parti Communautaire National-Européen, tuttora attivo in Belgio e Francia.
Gli sviluppi del comunitarismo euronazionalista si sono andati, invece, intrecciando, in Russia, con quelli del nuovo espansionismo putiniano. Specchio di questa parabola sono le metamorfosi del Movimento Internazionale Eurasiatista, nato durante la crisi dell’URSS su posizioni filomonarchiche, passato dopo il crollo del regime ad una rivalutazione della tradizione nazional-bolscevica, giunto, infine, nel nuovo millennio, a sposare le mire neoimperiali di Putin. Leader di questo movimento è A. Dughin, già traduttore di Evola, secondo il quale “bisogna opporre all’americanismo la dottrina euroasiatica, l’idea del Grande Impero Euroasiatico, quello della Tradizione e della sacralità gerarchica, armonica, organica, l’Impero delle grandi razze euroasiatiche, radicate nel suolo di questo continente attraverso legami naturali e diretti”.Fin dalle sue origini, questa organizzazione ha intrecciato rapporti con le destre neofasciste europee, creando una rete di gruppi che si riconoscono, pur tra mille distinguo, nell’ideologia euroasiatista.
Un altro terreno di coltura di questa corrente è stata, ed è, l’Italia. Le prime adesioni internazionali alla Jeune Europe di Thiriart vennero proprio da fascisti italiani come U. Gaudenzi, C. Orsi, C. Mutti, M. Borghezio e, a partire dagli anni Ottanta, alcuni protagonisti e fiancheggiatori dello stragismo nero si ritrovarono al centro di reti e circoli inneggianti al “comunitarismo”, alla convergenza tra opposti antagonismi, al superamento della contrapposizione destra-sinistra, e ad un “nuovo socialismo”. Tra questi, C. Mutti, che Cernigoi indica come “fondatore del nazimaoismo italiano”. Laureato in Filologia ugro-finnica, traduttore di Codreanu, attualmente direttore di Eurasia e animatore delle Edizioni all’Insegna del Veltro, Mutti fu arrestato nel 1974 con l’accusa di essere, insieme a a F. Freda e M. Tuti, tra i fondatori di Ordine Nero, organizzazione responsabile, come è noto, di circa 45 attentati, tra cui la strage di Brescia e la bomba sul treno Italicus. C. Palermo ce lo presenta come figura chiave di quella “nuova destra europea” che, dalla fine degli anni Settanta, si fece promotrice di una riscoperta dell’arianesimo islamico. Al contempo, Mutti è oggi uno dei punti di riferimento di quella “Rete dei circoli comunitaristi” di cui S. Ferrari così ricostruisce la storia: “Formatasi inizialmente come corrente interna al Fronte Nazionale di Adriano Tilgher (fondato nel 1997), nel novembre del 1998 edita la rivista “Rosso è Nero”. Allontanatasi dal Fronte nell’ottobre del 1999 […] decide di prendere contatti con il Partito comunitarista nazional-europeo”, erede diretto del comunitarismo post-nazista di Thiriart. Si trasforma, a fine 1999, in sezione italiana di quest’ultimo, modificando, l’anno successivo, il nome della testata da “Rosso è Nero” in “Comunitarismo”. Nel 2001, dopo aver preso le distanze anche dal partito comunitarista, si ripropone sotto la sigla “Unione dei Comunisti Nazionalitari”, presentandosi come formazione che intende “rafforzare la comunicazione con le altre realtà della sinistra anticapitalista e antimperialista”
Brodo di coltura di queste ideologie è un programmatico appiattimento delle differenze semantiche accumulate nei termini “socialismo” e “nazionalsocialismo”, “comunismo” e “comunitarismo”, e della storia che le ha prodotte, cui una parte dell’intellettualità italiana negli ultimi decenni si è prestata ampiamente. A partire dal 2000, in particolare, alcuni settori dell’area rosso-bruna hanno iniziato a “cercare contatti con ambienti della sinistra antimperialista ed internazionalista”e alcuni intellettuali “transfughi della sinistra”, come Costanzo Preve (1943-2013), alcune realtà associative come il Campo antiimperialista di Assisi, si son mostrati sensibili al richiamo.
Anche se, da molti anni, pubblicava quasi esclusivamente con case editrici di estrema destra, e faceva iniziative quasi solo con personaggi di quell’area, Preve conservò fino all’ultimo il vezzo di definirsi comunista e anticapitalista: “noi facciamo quindi una netta scelta di campo in favore del comunismo inteso come critica rivoluzionaria radicale non solo ai cosiddetti «eccessi neoliberali e finanziari» del capitalismo, ma anche e soprattutto alla riproduzione capitalistica in quanto tale”. Peccato che poi presentasse il fascismo e il nazismo come fenomeni la cui “intima natura” era quella di andare “al di là della dicotomia” tra destra e sinistra, e il suo comunismo-comunitarismo come “una correzione dell’assolutizzazione unilaterale del classismo proletario” orientata verso uno “stato nazionale fondato su di una democrazia nazionalitaria”
Verso questo obiettivo, a suo avviso, avrebbero dovuto marciare uniti tutti i movimenti non allineati all’“ordine mondiale”
Per comprendere questo sfaccettato fenomeno, ovvero, il convergere, in Italia e altrove, di diverse aggregazioni provenienti dall’estrema destra e di alcune figure o sigle dell’estrema sinistra statalista, in una variegata mappa di aree rosso-brune, contraddistinte da slogan come il superamento dell’opposizione destra-sinistra, l’appello ad una convergenza delle forze antimperialiste, l’antiamericanismo e l’antisemitismo mascherato da antisionismo, è necessario, credo, guardare, in primo luogo, ai mutamenti degli scenari internazionali avvenuti negli ultimi due decenni. Primi fra questi, la crisi delle forme tradizionali di sovranità nazionale, indotta dalle dimensioni che la globalizzazione capitalistica sta assumendo, e le ricadute di tale crisi sugli equilibri internazionali e interni.
Le diverse forme del neocomunitarismo europeo appaiono, in quest’ottica, variegate tipologie di risposta fobico-nostalgica alle trasformazioni che hanno indotto un sempre più consistente trasferimento dei poteri decisionali dagli Stati nazionali ad organismi internazionali, espressione dei grandi blocchi del potere economico e finanziario, un progressivo impoverimento delle classi lavoratrici e delle piccole e medie borghesie nazionali, uno smantellamento del sistema di ‘tutele’ sociali cui l’Occidente era abituato.
Risposte che si declinano principalmente secondo tre versanti:
Un comunitarismo nazionalista che alla crisi della sovranità statuale risponde rilanciando il progetto di un ruolo primario dello Stato nazionale nella programmazione economica e sociale, ispirandosi a modelli che vanno dal fascismo al socialismo di stato.
Un comunitarismo regionalista, che tenta di ricreare, a livello “etnico”, i connotati di una comunità gerarchica, omologante, chiusa all’immigrazione e al dissenso, tradizionalmente tipica del nazionalismo e dell’”organicismo” di radice prefascista e fascista.
Un comunitarismo euroasiatista, post-nazista, neo-imperialista, che auspica la creazione di un’asse antiamericano e antiebraico tra Europa continentale, Russia, paesi islamici, India, Cina, e chi più ne ha più metta.
Marco Celentano
A. DUGHIN, L’Isola del tramonto, in “La Nazione Eurasia”, 5, 2004, p. 5; cfr. anche P. STARA, La comunità escludente, Zero in Condotta, Reggio Emilia, 2007, pp. 32-38. C. CERNIGOI, La strategia dei camaleonti: comunitarismo e nazimaoismo, in “La Nuova Alabarda”, 2003: http://www.nuovaalabarda.org/dossier.. Strettamente legata a Jeaune Europe fu l’Organisation dell’ Armée Secrète, gruppo paramilitare nato a Madrid nel 1961, considerato “la più importante formazione terroristica che la Francia abbia mai conosciuto”
S. FERRARI, Le nuove camicie brune, BFS Edizioni, Città di Castello 2009, p. 52 S. FERRARI , Da Salò ad Arcore. La mappa della destra eversiva, Nuova Iniziativa Editoriale, Roma, 2006, p. 134. C. PREVE, La Scuola di Marx. Il problema dei rapporti fra Comunismo e Comunitarismo, 2011; http://www.comunismoecomunita.org.